Alla ricerca dell’insulina perduta nella giungla del Borneo, un uomo intraprende un viaggio estremo che lo condurrà al cuore della propria anima.
Trama:
Un racconto avventuroso ambientato nella giungla del Borneo: la corsa contro il tempo di un uomo per ritrovare la sua insulina smarrita si trasforma in un’esperienza profonda di rinascita e consapevolezza.
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L’ago nel pagliaio
C’erano solo due cose che Marco temeva di perdere nella vita: la speranza e l’insulina. La prima l’aveva lasciata scivolare via piano, come un oggetto smarrito nel silenzio dei giorni. La seconda, invece, l’aveva letteralmente persa tra le pieghe di uno zaino sgangherato, in una capanna sospesa tra il nulla e la foresta del Borneo.
Non era un turista. Non più. Aveva viaggiato mezzo mondo con un unico scopo: fuggire da sé stesso. Ma era il diabete, con la sua voce puntuale e tiranna, a ricordargli ogni giorno che non si può fuggire troppo a lungo senza pagare il conto.
Quando si accorse che la sua ultima fiala di insulina era sparita, probabilmente dimenticata nella baracca dove aveva dormito la notte prima, fu come se il tempo si fosse accartocciato su sé stesso. Una morsa allo stomaco, non tanto per l’iperglicemia imminente, quanto per la consapevolezza di essere fragile. Mortalmente fragile.
Decise di tornare indietro. A piedi. Da solo. Otto ore di marcia tra liane, umidità e insetti grandi come dita. Il suo cellulare era muto, la connessione inesistente. Tutto quello che aveva era un coltellino svizzero, una borraccia mezza vuota e la determinazione ostinata di chi non vuole morire per una disattenzione.
La foresta non perdona. Ma ascolta.
Durante il cammino, Marco si perse. E si ritrovò. Un fiume gli sbarrò la strada e lo costrinse a cambiare rotta. Seguì i versi degli uccelli e i silenzi dei primati nascosti. Il sudore gli colava addosso come pioggia bollente, ma sentiva ogni passo come un battito nuovo, come un’eco antica che lo riportava all’origine.
Gli tornò in mente suo padre, che gli aveva insegnato a pescare nei canali vicino Bologna. Gli tornò in mente la prima puntura, la paura, il rifiuto, poi l’accettazione. Poi l’oblio. Aveva smesso di curarsi davvero da anni, riducendo tutto a un automatismo tecnico. Ma lì, nella giungla, l’insulina non era più solo una terapia. Era la sua vita. Era il filo sottile che lo teneva legato al mondo.
Dopo due giorni di marcia forzata, febbre e crampi, ritrovò la capanna.
Era ancora lì, miracolosamente intatta, come se la foresta l’avesse protetta nel suo grembo. Dentro, in un angolo sotto una rete anti-zanzare, giaceva la piccola scatola termica. Aperta. Calda. Dentro, l’ago nel pagliaio: la sua insulina.
Marco crollò in ginocchio. Non pianse. Non urlò. Sorrise. Era vivo. Non solo nel corpo. Ma nell’anima.
Prese la fiala tra le mani e la guardò come si guarda qualcosa di sacro. Poi, con un gesto che sembrava un rituale, si fece l’iniezione.
Il liquido gli scorse dentro come un segreto ritrovato, una verità sussurrata dal cuore verde della giungla. Capì che non aveva camminato solo per recuperare un farmaco. Aveva camminato per tornare a sé stesso.
Ripartì il giorno dopo, con passo più lento ma sguardo più limpido. La giungla non era cambiata. Lui sì.
Quando finalmente raggiunse il villaggio e rivide la civiltà, il rumore dei motori, le lattine vuote, le scarpe pulite, si sentì stranamente fuori posto. Come se appartenesse di più a quel regno di radici e respiri profondi che l’aveva accolto nel momento più vulnerabile.
Tornò in Italia una settimana dopo, dieci chili in meno e una luce nuova negli occhi.
E ogni volta che racconta la storia, sorride e dice:
“Ho perso l’insulina, ma ho ritrovato me stesso. E fidatevi: è stato un affare.”
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