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Tra sogni d’oro e incubi sociali, il capitalismo evolve, muta pelle e diventa intrattenimento globale. Ma cosa resta di Reagan, e cosa ci dice Trump sul nostro presente e futuro economico?

Il capitalismo come show: da Reagan a Trump, l’evoluzione di un’ideologia

C’era una volta l’edonismo reaganiano, patinato, muscolare, profumato di libertà economica e cowboy hollywoodiani. Era il capitalismo che cavalcava l’onda della Guerra Fredda, si truccava da American Dream e diceva a tutti: se vuoi, puoi. Poi è arrivato lui, The Donald, e il copione è cambiato. Ma non il genere: è rimasto un reality show.

Il capitalismo estremo del XXI secolo è ancora figlio di quello nato negli anni Ottanta, ma ha cambiato stile, tono, linguaggio. Si è fatto più spigoloso, più grottesco, più performativo. Meno Wall Street, più Twitter. Meno Milton Friedman, più Steve Bannon.

L’edonismo reaganiano: la rivoluzione del sorriso

Ronald Reagan, ex attore, ex governatore, presidente carismatico e ottimista, incarnava una visione lucidamente superficiale ma pervasiva: deregulation, tagli alle tasse, trickle-down economics. “Il governo non è la soluzione, è il problema”, diceva. Il suo neoliberismo era venduto in confezioni brillanti: la libertà come brand, il successo personale come ricompensa morale, il mercato come giudice supremo.

Era l’epoca in cui l’arricchimento individuale veniva percepito come ascensore sociale collettivo. Chi aveva, aveva merito. Chi non aveva, non aveva abbastanza voglia. L’imperativo era: spendi, consuma, sorridi.

La mutazione: crisi, delusioni e nuovi idoli

Poi arrivarono le crisi: tecnologiche, immobiliari, finanziarie. Gli anni Duemila sono stati un lento risveglio dall’incantesimo. La bolla dot-com, la crisi dei mutui subprime, l’11 settembre, l’Iraq, la stagnazione dei salari, la crescita delle disuguaglianze. Il sogno reaganiano ha cominciato a mostrare crepe. Ma non è morto: si è trasformato.

È qui che si inserisce il nuovo capitalismo trumpiano: non più elegante, ma urlato. Non più edificato sull’immagine di successo collettivo, ma su un narcisismo ipermediatico, su un populismo economico che dissimula vecchie logiche con una retorica da bar dello sport globale.

Il capitalismo trumpiano: reality economy e guerra culturale

Trump non è stato un accidente della storia. È stato la rappresentazione plastica dell’evoluzione del capitalismo estremo: un uomo-marchio, miliardario in bancarotta morale, influencer ante-litteram. Il suo messaggio era semplice e ruvido: America First. Ma non quella compassata di Reagan. Una America arrabbiata, spaccata, nostalgica.

In economia, il trumpismo ha cavalcato il protezionismo, ha fustigato l’élite tecnocratica (pur essendone parte), ha riscoperto l’industria pesante come se il tempo si fosse fermato. È stato meno ideologico del reaganismo, ma più viscerale. Ha usato il capitalismo come arma identitaria, trasformando l’economia in una guerra culturale.

Tra globalizzazione e tribalizzazione

Il capitalismo estremo si muove oggi su due binari contraddittori: da un lato, la globalizzazione – merci, dati, capitali che attraversano i confini come satelliti impazziti; dall’altro, la tribalizzazione – comunità chiuse, identità blindate, muri fisici e simbolici.

Trump ha spinto su quest’ultimo pedale, parlando non al mondo, ma alla sua “base”. Il mercato, un tempo inteso come spazio universale di scambio, è diventato un’arena di scontro tra “noi” e “loro”, tra chi ha nostalgia e chi ha paura. E in questa nuova grammatica, le regole economiche diventano tweet, le manovre fiscali diventano meme, le crisi vengono negate con una pacca sulla spalla e un “fake news!”.

I numeri della disuguaglianza: il conto arriva sempre

Il capitalismo estremo ha portato benessere a molti, ma ricchezza concentrata a pochissimi. Dal 1980 a oggi, i top 1% hanno visto moltiplicarsi patrimoni e potere, mentre le classi medie e lavoratrici sono rimaste ai margini. La promessa reaganiana era una marea che solleva tutte le barche. La realtà trumpiana è una marea che affonda quelle più piccole, e trasforma le yacht in isole blindate.

E mentre l’ascensore sociale si rompe, aumenta la rabbia. E la rabbia è benzina per il populismo economico: non serve risolvere i problemi, basta indicare un colpevole.

E ora? Capitalismo 3.0 o crepuscolo dell’Occidente?

Il capitalismo estremo, così come lo abbiamo conosciuto, sta forse entrando in una nuova fase. Con l’intelligenza artificiale, la crisi climatica, la digitalizzazione della moneta e dei desideri, ci troviamo di fronte a una nuova frontiera. Il capitalismo post-trumpiano – se così possiamo chiamarlo – è ancora tutto da scrivere.

Sarà una versione più inclusiva, sostenibile e tecnologicamente consapevole? O continuerà sulla scia dello spettacolo permanente, tra nuovi imprenditori-messia e algoritmi padroni del mercato?

La risposta dipenderà anche da noi: da quanto saremo capaci di uscire dalla logica del consumo compulsivo e rientrare in quella del senso, del limite, della misura.


Conclusione: dal sogno americano all’insonnia collettiva

Dall’edonismo sorridente di Reagan al grido di guerra di Trump, il capitalismo estremo ha mutato voce, pelle, costumi. Ma l’anima resta la stessa: una fame di espansione, di possesso, di affermazione. Riusciremo a riscrivere il copione? O continueremo a essere spettatori paganti di una commedia che sta diventando tragedia?


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Di Roberto Lambertini

Roberto Lambertini è nato a Bologna il 4 settembre 1961. Fin da giovane è stato appassionato di lettura, libri e informazione.