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Due persone su tre con dolore cronico cercano conforto nel cibo, soprattutto cioccolato; il piacere immediato distrae e attenua le emozioni negative, ma nel tempo può alimentare un circolo vizioso tra peso, infiammazione e più dolore. Cosa dicono gli studi più recenti e quali alternative pratiche possiamo adottare in Italia.

C’è un momento, durante le giornate in cui il dolore non molla, in cui la mente sussurra una ricetta antica, quasi domestica: un quadratino di cioccolato, una fetta di torta, un piatto caldo. Non un farmaco, non un impacco, eppure un gesto che sa di casa e di sollievo. Non è debolezza, è umanissimo. La scienza, oggi, lo conferma con chiarezza: chi convive con il dolore cronico tende a cercare conforto nel cibo, spesso nel cioccolato. Uno studio recente pubblicato sul Journal of Clinical Psychology in Medical Settings racconta che oltre due terzi degli adulti con dolore cronico ammettono di mangiare “per sentirsi meglio” quando i sintomi si riaccendono. Il motivo principale? Concedersi un’esperienza piacevole, seguita da distrazione e riduzione delle emozioni negative. (SpringerLink)

L’indicazione è potente, perché sposta lo sguardo: non solo anestesia emotiva, non solo fuga, ma la ricerca di un momento lieto in giornate faticose. Gli autori, della Graduate School of Health dell’Università di Tecnologia di Sydney, hanno intervistato 141 adulti con dolore persistente, scoprendo che il 51,8 per cento mangia per regalarsi un piacere, il 49,6 per cento per distrarsi, il 39 per cento per smorzare emozioni difficili. (SpringerLink)

Il quadro generale è tutt’altro che marginale. Il dolore cronico riguarda circa una persona su cinque nel mondo, definito come dolore che dura tre mesi o più; un problema di salute pubblica enorme, non soltanto clinico ma anche sociale, economico, familiare. In questo contesto, il “comfort eating” diventa una strategia di coping intuitiva. Gli stessi ricercatori sottolineano che il piacere del cibo, specie se calorico, può dare un sollievo immediato, perfino un lieve effetto analgesico; è un’ipotesi coerente con osservazioni sperimentali anche su modelli animali che cercano zuccheri in condizioni di sofferenza. Ma, come spesso accade, ogni medaglia ha il suo rovescio. (uts.edu.au)

Il piacere che consola, la trappola che stringe

La consolazione alimentare funziona nel breve periodo. Riduce la percezione del dolore, alza per un poco la soglia di tolleranza, restituisce la sensazione di avere ancora un bottone da premere per dire al corpo “resisti”. Tuttavia, nel lungo corso rischia di accendere una spirale difficile da spegnere: calorie in eccesso, aumento di peso, infiammazione di basso grado, maggior carico su articolazioni e tessuti, quindi più dolore, quindi nuovo ricorso al cibo. Un circolo vizioso. Il team australiano mette in guardia su questo punto, invitando i professionisti a includere l’educazione alimentare nei programmi di gestione del dolore, accanto a farmaci, fisioterapia, rilassamento e pacing delle attività. (uts.edu.au)

Il dato che colpisce è la normalità del gesto. Non stiamo parlando di abbuffate estreme, ma del quotidiano “premio” che offre una parentesi di luce. Ed è comprensibile. Proprio per questo la ricerca non serve a colpevolizzare, bensì ad allargare la cassetta degli attrezzi, dando nomi, misure, alternative. Lo studio suggerisce di riconoscere quando il cibo diventa uno strumento di regolazione del dolore, affinché la persona possa scegliere, non solo reagire. (uts.edu.au)

Cosa cambia per chi vive in Italia

Anche nel nostro paese i servizi per il dolore cronico stanno integrando approcci biopsicosociali. Portare il tema del “mangiare di conforto” dentro l’ambulatorio italiano significa tre cose concrete: 1, valutare gli episodi di alimentazione emotiva legati alle riacutizzazioni; 2, proporre micro-strategie immediate, praticabili anche a casa; 3, coinvolgere figure come dietisti e psicologi con competenze sul dolore. Le evidenze suggeriscono che strumenti validati, come scale specifiche per l’alimentazione di conforto indotta dal dolore, possono aiutare a misurare il fenomeno e a personalizzare gli interventi. (PMC)

In ambito territoriale, dalle Case della Comunità ai centri di terapia del dolore, inserire consigli dietetici brevi, realistici, coordinati con il piano riabilitativo, rende più coerente l’intero percorso. Non per proibire, ma per dare alternative pratiche nello stesso momento in cui il bisogno esplode.

Le tre funzioni del comfort food, spiegate semplice

Piacere: regalarsi un’esperienza sensoriale positiva, un attimo di festa dentro il grigio del dolore. È il motivo più citato nello studio. (SpringerLink)

Distrazione: spostare l’attenzione dal segnale doloroso a una routine diversa, concreta, familiare. (SpringerLink)

Regolazione emotiva: lenire ansia, tristezza, frustrazione che accompagnano le riacutizzazioni. (SpringerLink)

Tre funzioni legittime, umane, ma che possono essere soddisfatte anche con strumenti non calorici, o almeno più equilibrati.

Alternative pratiche durante una riacutizzazione

Quando il dolore sale, il cervello chiede “qualcosa, subito”. Ecco un kit rapido, pensato per il contesto italiano e integrabile con il piano clinico:

  1. Piacere “a basso carico”: tè o tisane aromatiche, un quadratino di fondente ≥70 per cento gustato lentamente, frutta secca porzionata in ciotoline piccole. Conservare porzioni mini aiuta a rispettare il limite senza sentirsi puniti.
  2. Distrazioni sensoriali: impacchi caldo umidi a rotazione, docce tiepide brevi, profumi familiari, musica preferita con focus sul respiro, audiolibri di racconti brevi.
  3. Regolazione emotiva “on the spot”: esercizi di respirazione 4-6, tecniche di rilassamento muscolare progressivo, 3 minuti di imagery guidata con immagini “luogo sicuro”; scrivere due righe di diario sul picco di dolore e cosa ha funzionato l’ultima volta.
  4. Pacing delle attività: spezzare i compiti domestici in blocchi, usare timer gentili; dopo 15 minuti, 2 minuti di pausa in posizione comoda.
  5. Telefonata ponte: un contatto di fiducia a cui dire “sto in una riacutizzazione, faccio il protocollo breve”; condividere la strategia riduce il ricorso impulsivo al cibo.

Queste proposte non sostituiscono farmaci o fisioterapia prescritti; sono complementi comportamentali da adattare con il team curante.

Il ruolo dei professionisti: integrare cibo e dolore, senza giudizio

I programmi per il dolore spesso insegnano stretching, sonno, gestione del ritmo. La novità è portarci dentro anche il cibo, nominando il comfort eating e normalizzando la conversazione. Il clinico può:

  • Chiedere con tatto: “Quando il dolore aumenta, capita che il cibo diventi un aiuto? In che modo?”
  • Mappare i momenti critici: orari, luoghi, trigger emotivi.
  • Co-progettare alternative: una lista tascabile con tre opzioni di piacere, tre di distrazione, tre di regolazione, tutte “a portata di mano” in casa.
  • Usare misure brevi: scale validate per l’alimentazione di conforto indotta dal dolore, utili per monitorare i progressi. (PMC)

Ma il cioccolato fa male o fa bene?

Domanda legittima, risposta onesta: dipende dalla dose, dal contesto e dalla funzione. Se il quadratino diventa tavoletta, ogni sera, l’equilibrio salta. Se invece lo incastoniamo in una strategia più ampia, con porzioni piccole e consapevoli, può restare un rito affettivo senza trasformarsi in miccia del dolore. La letteratura cita la possibilità di un lieve effetto analgesico dei cibi ipercalorici, ma non giustifica un uso sistematico come “terapia”. Piuttosto, suggerisce di comprendere il meccanismo e di affiancarlo con alternative capaci di dare piacere, distrazione e regolazione emotiva senza sovraccaricare l’organismo. (uts.edu.au)

Messaggio finale: tradizione, misura, consapevolezza

La nostra cultura gastronomica è maestra di misura e di rito. La cucina italiana non è solo quantità, è tempo, relazione, attesa. Recuperare il pasto come momento seduto, piatto semplice, mestolo di brodo, un frutto di stagione, può valere più di mille raccomandazioni. Se il dolore cronico si presenta alla porta, non serve sbatterla, serve accoglierlo con un protocollo gentile: le cure prescritte, il movimento possibile, e un paniere di strategie che includano il cibo come alleato consapevole, non come unico scudo.

E se a volte un quadratino di fondente scioglie l’angolo amaro della giornata, gustiamolo come si faceva una volta, piano, respirando, ringraziando. Il piacere resta, l’eccesso no.


Fonti e approfondimenti

  • Roche C, Burton A, Newton-John T. Eating to Feel Better: The Role of Comfort Eating in Chronic Pain. Journal of Clinical Psychology in Medical Settings, 2025. Dati principali su funzioni del comfort eating e percentuali riportate. (SpringerLink)
  • University of Technology Sydney. Comunicato: “Two in three people with chronic pain turn to comfort eating”, con contesto pubblico e raccomandazioni cliniche. (uts.edu.au)
  • Burton AL et al. Sviluppo e validazione della Pain-Induced Comfort Eating Scale (PICES), utile per la valutazione clinica. (PMC)
  • Copertura divulgativa recente su testate scientifiche. (Medical Xpress)

Box pratico per l’Italia, subito utilizzabile

  • Quando senti arrivare il picco, prima di aprire la dispensa, prendi la tua “lista 3×3” piacere, distrazione, emozioni.
  • Porzioni pronte: monodosi di frutta secca, cioccolato fondente in quadretti, yogurt bianco con cannella.
  • Acqua tiepida e respiro: un bicchiere lento, cinque respiri 4-6.
  • Timer gentile: 10 minuti di pausa consapevole; se dopo vuoi ancora il dolce, concediti una porzione piccola, seduto, senza schermi.

Hashtag

#DoloreCronico #ComfortFood #AlimentazioneEmotiva #BenessereConsapevole


Nota per il lettore: questo articolo ha uno scopo informativo e non sostituisce il parere del medico curante o del centro di terapia del dolore. Portalo con te alla prossima visita, può aprire una conversazione utile.

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Di Roberto Lambertini

Roberto Lambertini è nato a Bologna il 4 settembre 1961. Fin da giovane è stato appassionato di lettura, libri e informazione.

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